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Perdurante efficacia del CCNL scaduto e autonomia negoziale delle parti sindacali

16 Febbraio 2021 by Teleconsul Editore S.p.A.

La perdurante efficacia del contratto collettivo scaduto, fino a che non sia intervenuto un nuovo regolamento collettivo non si applica ai contratti collettivi post-corporativi che, costituendo manifestazione dell’autonomia negoziale privata, sono regolati dalla libera volontà delle parti, alle quali soltanto spetta stabilire se l’efficacia di un accordo possa sopravvivere alla sua scadenza. Diversa invece è la fattispecie in cui manchi un termine di durata o nella quale le parti abbiano espressamente previsto una durata indeterminata del CCNL: solo in tali casi deve riconoscersi alle parti la possibilità di farne cessare l’efficacia, previa disdetta, anche in mancanza di una espressa previsione legale (Corte di Cassazione, sentenza 12 febbraio 2021, n. 3672).

Un gruppo di lavoratori adiva il Giudice del lavoro per chiedere l’accertamento, nei confronti del proprio datore di lavoro, dell’inapplicabilità di un CCNL sottoscritto da alcune sigle sindacali e dell’ulteriore accordo integrativo sull’inquadramento del personale, in quanto tali accordi non erano stati firmati dal sindacato al quale i lavoratori erano iscritti. Essi, altresì, rivendicavano l’applicazione del precedente CCNL, che espressamente prevedeva la propria vigenza sino alla stipulazione di un nuovo contratto, circostanza nella specie non verificatasi.
Tanto il Tribunale quanto la Corte di appello rigettavano il ricorso, ritenendo legittima la disdetta del primo CCNL.
La vigenza del primo CCNL, infatti, era da tempo scaduta, con conseguente venir meno di ogni vincolo temporale al mantenimento dei suoi effetti e conseguente applicabilità del principio di libera recedibilità previsto in materia contrattuale (art. 1373, co. 2, c.c.). E in ogni caso, alla disposizione collettiva per cui il contratto avrebbe conservato la sua validità fino alla sottoscrizione del nuovo, va riconosciuto il limitato effetto di stabilire l’ultravigenza del CCNL, anche successivamente alla scadenza del termine contrattualmente previsto, solo fino alla stipulazione ad opera di una delle parti di un qualsivoglia nuovo contratto collettivo, non necessariamente con le stesse parti originariamente contraenti.
Ancora, non sarebbe violato il principio di irriducibilità della retribuzione sancito (art. 2103 c.c.), non sussistendo un diritto al mantenimento del trattamento economico e normativo stabilito da un precedente CCNL. Al contrario, è legittima, in caso di successione di contratti collettivi, anche una modifica in peius del trattamento economico e normativo, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto del contratto individuale, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento e non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 c.c.), con il limite del diritto quesito. Al riguardo, è qualificabile come diritto quesito, insuscettibile di essere pregiudicato da successive disposizioni contrattuali, solo il diritto perfetto già entrato definitivamente nella sfera patrimoniale del lavoratore, come il corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita, ma non invece la pretesa riferita a situazioni future o in via di consolidamento.
Avverso la sentenza ricorrono così in Cassazione i lavoratori, lamentando, tra l’altro, la violazione della norma collettiva, riguardo alla dichiarazione di sopravvenuta perdita di efficacia del CCNL, in quanto la clausola di ultravigenza contenuta ivi contenuta prevedeva come termine finale del contratto soltanto la stipula di un nuovo contratto tra le parti.
Per la Suprema Corte il motivo è fondato.
In merito alla questione della durata e dell’efficacia dei contratti collettivi di diritto comune, essi, costituendo manifestazione dell’autonomia negoziale degli stipulanti, operano esclusivamente entro l’ambito temporale concordato dalle parti, atteso che l’opposto principio di ultrattività sino ad uno nuovo regolamento collettivo (art. 2074 c.c.) in contrasto con l’intento espresso dagli stipulanti, ponendosi come limite alla libera volontà delle organizzazioni sindacali, violerebbe la garanzia costituzionale della loro libertà (Corte di Cassazione – S.U., sentenza n. 11325/2005).
La perdurante efficacia del contratto collettivo scaduto, fino a che non sia intervenuto un nuovo regolamento collettivo, infatti, non si applica ai contratti collettivi post-corporativi che, costituendo manifestazione dell’autonomia negoziale privata, sono regolati dalla libera volontà delle parti, alle quali soltanto spetta stabilire se l’efficacia di un accordo possa sopravvivere alla sua scadenza. La cessazione dell’efficacia dei contratti collettivi, coerentemente con la loro natura pattizia, dipende quindi dalla scadenza del termine ivi stabilito.
La “scadenza” del contratto non può che essere quella fissata specificamente e chiaramente dalle parti collettive e la previsione della perdurante vigenza fino alla nuova stipulazione ha il significato della previsione, mediante la clausola di ultrattività, di un termine di durata, benché indeterminato nel “quando”, atteso che il contratto collettivo di diritto comune è regolato dalla libera volontà delle parti, che possono in tal modo regolare gli effetti del contratto scaduto quanto al termine di efficacia previsto nella prima parte della stessa norma.
La Corte di merito, invece, ha richiamato principi e precedenti giurisprudenziali che fanno riferimento a fattispecie diverse, quelle in cui manca un termine di durata o nelle quali le parti abbiano espressamente previsto una durata indeterminata: non essendo applicabile la disciplina prevista dal codice civile per i contratti corporativi (art. 2071, ultimo comma, c.c.), relativa all’obbligo di determinare la durata del contratto, sussiste la possibilità che un contratto collettivo sia stipulato senza indicazione del termine finale e la mancata indicazione non implica che gli effetti del contratto perdurino nel tempo senza limiti. Solo in tali casi deve riconoscersi alle parti la possibilità di farne cessare l’efficacia, previa disdetta, anche in mancanza di una espressa previsione legale (Corte di Cassazione, sentenza n. 19351/2007).

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