06 sett 2021 La prescrizione del diritto al risarcimento decorre dal momento in cui il lavoratore ha potuto acquisire la piena consapevolezza non solo della malattia, con un danno alla salute apprezzabile, ma anche dell’origine professionale della stessa, indipendentemente da valutazioni meramente soggettive a lui ascrivibili. Una Corte di appello ha parzialmente accolto il ricorso proposto dagli eredi del titolare di un’azienda, riducendo la somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale in favore degli eredi di una lavoratrice deceduta a seguito di mesotelioma peritoneale insorto a seguito dell’attività di operaia roccatrice, trecciatrice e tessitrice addetta alla produzione di manufatti in amianto.
In particolare, il giudice di secondo grado ha confermato il nesso causale tra l’attività svolta e la patologia accertata e la responsabilità datoriale sia sotto il profilo soggettivo che sotto il profilo oggettivo.
Con ricorso in Cassazione, i ricorrenti aostengono che la Corte avrebbe dovuto ritenere prescritto il diritto al risarcimento atteso che il termine, decennale, decorreva dalla cessazione del rapporto di lavoro nel 1981 ovvero, comunque, dall’insorgenza della malattia nel 2002. Tale motivo è infondato. La prescrizione infatti decorre dal momento in cui il lavoratore ha potuto acquisire la piena consapevolezza non solo della malattia, con un danno alla salute apprezzabile, ma anche dell’origine professionale della stessa, indipendentemente da valutazioni meramente soggettive a lui ascrivibili.
Con riguardo poi all’accertamento della data da cui far decorrere materialmente la prescrizione la Corte territoriale, sulla base dell’indagine svolta dal consulente d’ufficio, ha accertato che il mesotelioma peritoneale, diagnosticato nel febbraio 2012 e che poi aveva condotto a morte la lavoratrice, era malattia diversa e non aggravamento della pleuropatia accertata nel 2002. Si tratta di accertamento di fatto fondato sulle conclusioni rassegnate dall’ausiliario officiato in giudizio che può essere sindacato in sede di legittimità solo in caso di palese deviazione dalle nozioni correnti della scienza medica, di cui però è necessario indicare la fonte, o nell’omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non si può prescindere per la formulazione di una corretta diagnosi. Nessuna di tali ipotesi ricorre nel caso in esame e pertanto la censura si risolve in un mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico – formale e si traduce, quindi, in una inammissibile critica del convincimento del giudice.
Peraltro, dalla lettura della sentenza di appello non emerge che la questione di un concorso di colpa o di una interruzione del nesso causale, desumibile dalla ricostruzione fattuale del consulente, sia mai stata sollevata davanti al giudice di appello e dunque anche per tale aspetto la censura è inammissibile.
Anche il quarto motivo di ricorso – con il quale si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2059 e 113 cod. proc.civ. in relazione alla valutazione equitativa del danno da parte della Corte di appello senza idonea giustificazione- non può essere accolto atteso che l’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione, come nella specie, dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito.