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L’impiego di soci come dipendenti giustifica l’antieconomicità della gestione

15 Luglio 2021 by Teleconsul Editore S.p.A.

Il comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia d’impresa, costituito dal conseguimento di un reddito inferiore a quello di un lavoratore dipendente a fronte di un elevato volume d’affari, oltre alla sproporzione tra spese per pubblicità e dipendenti rispetto all’utile di esercizio, giustifica la rettifica del reddito dichiarato mediante un accertamento induttivo, anche in presenza di contabilità formalmente tenuta. Tuttavia, l’antieconomicità può essere legittimamente giustificata dal fatto che i soci siano assunti come lavoratori dipendenti. (Corte di Cassazione – Ordinanza 12 luglio 2021, n. 19753).

La controversia trae origine dall’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate ha rettificato il reddito della società, esercente attività di pizzeria-ristorazione, in presenza di un perdurante comportamento antieconomico della società stessa.
Su ricorso della società, i giudici tributari hanno annullato l’avviso di accertamento ritenendo esclusa l’antieconomicità della gestione in considerazione della circostanza che due dei quattro soci della compagine erano lavoratori dipendenti a tempo pieno ed avevano dichiarato i relativi redditi percepiti dalla società stessa; hanno inoltre osservato che l’Ufficio non aveva dimostrato l’inattendibilità della contabilità, applicando meri parametri induttivi e supposizioni.
La decisione è stata impugnata dall’Agenzia delle Entrate, che ne ha eccepito l’erroneità per aver ritenuto dimostrata l’attendibilità e validità della contabilità, sulla base dell’entità dei redditi dichiarati dai due soci lavoratori (su quattro complessivi), evidenziando al contrario il conseguimento di un reddito d’impresa inferiore a quello di un lavoratore dipendente a fronte di un elevato volume d’affari, oltre alla sproporzione tra spese per pubblicità e dipendenti rispetto all’utile di esercizio.

La Corte Suprema ha osservato che l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con cui il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorché di rilevante importo, è consentito pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacché la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata.
Una volta contestata dall’erario l’antieconomicità di un comportamento posto in essere dal contribuente, poiché assolutamente contrario ai canoni dell’economia, incombe sul medesimo l’onere di fornire, al riguardo, le necessarie spiegazioni, essendo – in difetto – pienamente legittimo il ricorso all’accertamento induttivo da parte dell’amministrazione, con inversione dell’onere della prova.
Con riferimento al settore della ristorazione, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo, nonostante la contabilità aziendale regolarmente tenuta sul piano formale, l’accertamento, che, in via presuntiva, ha ricostruito i ricavi dell’impresa in base al consumo dei tovaglioli utilizzati, risultante, per quelli di carta, dalle fatture o ricevute di acquisto e, per quelli di stoffa, dalle ricevute della lavanderia, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adopera un solo tovagliolo, per cui il relativo numero è un fatto noto, anche da solo idoneo, da cui desumere il numero di pasti effettivamente consumati, una volta dedotti – cosiddetta percentuale di sfrido – i tovaglioli abitualmente utilizzati per altri scopi, come i pasti dei dipendenti.
Più in generale, la Cassazione, ha affermato che in tema di accertamento con metodo analitico induttivo, la circostanza che un’impresa commerciale dichiari, per più annualità, un volume di affari inferiore agli acquisti ed applichi modestissime percentuali di ricarico sulla merce venduta costituisce una condotta anomala, di per sé sufficiente a giustificare la rettifica del reddito sulla base di un accertamento analitico-induttivo. In tal caso, il giudice tributario, per poter annullare l’accertamento, deve motivare con validi argomenti le ragioni che giustifichino il comportamento del contribuente, non esauribili nel richiamo alla mera libertà di impresa riguardo alla propria politica commerciale.

Nel caso in esame, la Corte di Cassazione ha condiviso la motivazione dei giudici tributari ritenendo che – anche sulla base delle “materie prime, fattore lavoro, lavaggio tovaglioli, ecc.” – la società abbia sufficientemente dimostrato l’attendibilità della propria contabilità, in particolare dovendo tenersi conto della circostanza che due dei quattro soci erano anche lavoratori, i quali per l’anno oggetto di accertamento hanno percepito redditi da lavoro dipendente regolarmente dichiarati e assoggettati ad imposta.
In altri termini, l’apparente antieconomicità della gestione della società risulta giustificata dal fatto che due dei quattro soci percepivano un reddito da lavoro alle dipendenze della società, così incrementandosi la consistenza dei costi fissi di gestione, ma con lo spostamento “a valle” del soddisfacimento delle ragioni erariali, ossia sulle componenti reddituali dei soci, anziché su quella sociale.

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