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Licenziamento per GMO e tutela reintegratoria, quando ricorre la manifesta insussistenza del fatto

21 Maggio 2021 by Teleconsul Editore S.p.A.

In tema di licenziamento per GMO, anche in caso di mancata dimostrazione del nesso causale tra riorganizzazione aziendale e licenziamento del lavoratore, l’applicazione della tutela reintegratoria per manifesta insussistenza del fatto posto a base del recesso, richiede comunque una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso, cui non può essere equiparata una prova meramente insufficiente (Corte di Cassazione, sentenza 19 maggio 2021, n. 13643)

Una Corte di appello territoriale aveva accolto il reclamo proposto da un datore di lavoro e, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di primo grado, dichiarato risolto il rapporto di lavoro intercorso con un lavoratore a seguito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli, pur confermandone l’illegittimità. Per l’effetto, poi, aveva condannato la società a corrispondergli un’indennità risarcitoria onnicomprensiva, quantificata in quindici mensilità di retribuzione. A giudizio della Corte territoriale, pur accertata una situazione di crisi aziendale di carattere non temporaneo, il giustificato motivo oggettivo doveva identificarsi non con la soppressione del posto di lavoro a seguito della riorganizzazione, bensì con la generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, sicchè la società avrebbe dovuto individuare il soggetto da licenziare estendendo la parametrazione a tutti i dipendenti in servizio nella sede, aventi il medesimo inquadramento.
Avverso la sentenza ricorre così il lavoratore, lamentando la mancata dimostrazione del nesso causale tra la riorganizzazione aziendale ed il licenziamento del lavoratore, il che si avrebbe dovuto tradursi nella insussistenza del fatto posto a base del recesso ed imporrebbe l’applicazione della reintegra (art. 18, co. 4, L. n. 300/1970).
Per la Suprema Corte il ricorso non può trovare accoglimento.
La Corte di merito, infatti, ha correttamente accertato che la società datrice, al tempo del licenziamento, stava attraversando una situazione di crisi che l’aveva determinata a procedere ad una ristrutturazione con una riduzione del personale in servizio. Pertanto, non vi era stata una soppressione del posto di lavoro cui era assegnato il lavoratore, ma piuttosto una più efficiente distribuzione delle mansioni ed un ridimensionamento del numero di dipendenti. con la conseguente esigenza di procedere all’individuazione del soggetto da licenziare, sulla base di criteri analoghi a quelli previsti per i licenziamenti collettivi.
Orbene, il regime sanzionatorio introdotto dalla Legge n. 92/2012, prevede, di regola, nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo, la corresponsione di una indennità risarcitoria compresa tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità. Di contro, il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino ad un massimo di 12 mensilità, è riservato a quelle ipotesi residuali che fungono da eccezione, nelle quali l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento è connotata di una particolare evidenza (ex multis, Corte di Cassazione, sentenza 25 luglio 2018, n. 19732).
In sostanza, il concetto di “manifesta insussistenza” del fatto posto a base di un recesso per giustificato motivo oggettivo, deve essere riferito “ad una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso” (Corte di Cassazione. sentenza 12 maggio 2018 n. 10435). Deve trattarsi, cioè, di una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso, cui non può essere equiparata una prova meramente insufficiente (Corte di Cassazione, sentenza 25 giugno 2018 n. 16702).

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