Nel caso di licenziamento illegittimo e di successivo omesso versamento dei contributi da parte del datore di lavoro, l’ordinamento non prevede un’azione del lavoratore volta a condannare l’Ente previdenziale alla “regolarizzazione” della sua posizione contributiva, nemmeno nell’ipotesi in cui l’Ente, che sia stato messo a conoscenza dell’inadempimento contributivo prima della decorrenza della prescrizione, non si sia tempestivamente attivato, residuando unicamente in favore del lavoratore il rimedio risarcitorio e la facoltà di chiedere all’Inps la costituzione della rendita vitalizia (Corte di Cassazione, sentenza 10 marzo 2021, n. 6722). Una Corte di appello territoriale, confermando la pronuncia di primo grado, aveva rigettato la domanda di un lavoratore tesa ad ottenere dall’Inps la regolarizzazione della sua posizione contributiva a seguito del passaggio in giudicato di altra sentenza con la quale il medesimo era stato reintegrato nel posto di lavoro, in conseguenza dell’illegittimità del licenziamento intimatogli, e il datore di lavoro condannato a pagare la contribuzione previdenziale dalla data del licenziamento sino a quella della reintegrazione.
Ad avviso della Corte di merito, in capo all’Inps, rimasto terzo estraneo al processo conclusosi con la sentenza di reintegra, non poteva dirsi sussistente alcun obbligo di provvedere all’integrazione di una provvista contributiva rimasta scoperta a causa dell’inadempimento del datore di lavoro obbligato.
Avverso la sentenza ricorre così in Cassazione il lavoratore, il quale deduce violazione e falsa applicazione della legge, non potendo trovare applicazione nei confronti del datore la disciplina risarcitoria ex artt. 2116 c.c. ed art. 13, L. n. 1338/1962, per essersi questi estinto, nelle more, a seguito di cancellazione dal Registro delle imprese.
Per Ia Suprema Corte il ricorso non è fondato.
In via preliminare, la previsione normativa per cui il datore di lavoro è condannato al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento dichiarato illegittimo a quello dell’effettiva reintegrazione, costituisce fattispecie eccezionale di condanna a favore del terzo, la quale non necessità della partecipazione al giudizio dell’Ente previdenziale (Corte di Cassazione, sentenza n. 8956/2020) e non richiede nemmeno alcuna specifica domanda del lavoratore. Difatti, coerentemente con l’autonomia del rapporto contributivo rispetto a quello previdenziale, il lavoratore non può sostituirsi all’Ente previdenziale per ottenere una condanna del datore di lavoro a pagare i contributi medesimi, discendendo piuttosto l’obbligo del loro pagamento dall’acclarata persistenza del rapporto di lavoro, sia in conseguenza della declaratoria di nullità del recesso, sia della sua ricostituzione con efficacia ex tunc, a seguito di declaratoria d’illegittimità del licenziamento per difetto di giusta causa o di giustificato motivo.
Tanto premesso, per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in caso di omesso versamento dei contributi da parte del datore di lavoro, l’ordinamento non prevede un’azione dell’assicurato volta a condannare l’Ente previdenziale alla “regolarizzazione” della sua posizione contributiva, nemmeno nell’ipotesi in cui l’ente previdenziale, che sia stato messo a conoscenza dell’inadempimento contributivo prima della decorrenza del termine di prescrizione, non si sia tempestivamente attivato per l’adempimento nei confronti del datore di lavoro obbligato, residuando unicamente in suo favore il rimedio risarcitorio (art. 2116 c.c.) e la facoltà di chiedere all’Inps la costituzione della rendita vitalizia (art. 13, L. n. 1338/1962).
In relazione, poi, all’asserita estinzione della società conseguente alla cancellazione dal Registro delle imprese ed alla conseguente impossibilità di attivare la tutela risarcitoria, la Suprema Corte specifica che alla predetta cessazione non corrisponde il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, determinandosi invece un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale l’obbligazione della società non si estingue, ma, unitamente ai diritti e beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, si trasferisce in capo ai soci, che ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che le società fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali.