Al fine di stabilire quale sia la portata applicativa delle clausole di un contratto collettivo, seppur nella particolare materia sia escluso il ricorso all’interpretazione analogica, non può neppure escludersi la praticabilità di un’interpretazione estensiva delle clausole contrattuali ove esse appaiano inadeguate per difetto dell’espressione letterale rispetto alla volontà delle parti, tradottasi in un contenuto carente rispetto all’intenzione (Corte di Cassazione, sentenza 09 luglio 2021, n. 19585) Una Corte di appello territoriale riformava in parte la sentenza del Tribunale di primo grado, che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato ad una lavoratrice e disposto la sua reintegra nel posto di lavoro. Alla lavoratrice, addetta al bar presso un centro commerciale, era addebitato di avere omesso la registrazione di n. 22 acquisti, nonchè l’omessa consegna degli scontrini ai clienti, con relativo omesso versamento dei corrispettivi in cassa per tre diversi giorni. Secondo il giudice di primo grado, in base delle dichiarazioni dei testi, erano stati i responsabili del punto vendita a chiedere alla ricorrente e alle altre addette alla vendita di non registrare gli acquisti. Ciò, al fine di consentire l’utilizzo del denaro il cui incasso non era stato registrato, per simulare l’acquisto di prodotti in promozione la cui vendita dava diritto a premi per i direttori, per i capi area e per lo stesso punto vendita. Si era trattato, dunque, di una condotta comune ad altre colleghe, per la quale la lavoratrice non aveva intascato nulla; altresì, il suo comportamento, anche se non giustificabile, visto che non aveva subito una coartazione assoluta da parte dei superiori, non rientrava tra le ipotesi per cui il CCNL prevede la sanzione espulsiva. Tale condotta, infatti, andava valutata alla stregua di una negligenza nell’adempimento degli obblighi lavorativi. Conseguentemente, nella fattispecie doveva trovare applicazione la reintegra della ricorrente nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno pari a dodici mensilità di retribuzione (art. 18, co. 4, L. n. 300/1970).
La Corte di appello, invece, riformava la statuizione relativa al regime di tutela applicabile, ritenendo che la fattispecie rientrasse nelle “altre ipotesi” (art. 18, co. 5, L. n. 300/1970), e dichiarava risolto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento, con condanna del datore di lavoro a corrispondere un’indennità pari a diciotto mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Secondo i giudici di appello i fatti addebitati alla lavoratrice erano provati e incontestati, tuttavia il comportamento non poteva considerarsi frutto di semplice negligenza, tanto da rientrare nell’ipotesi per la quale il CCNL prevede una sanzione conservativa, bensì il frutto di una condotta consapevolmente volta a far conseguire non solo ad altri (direttori, capi area, il punto vendita), ma anche alla stessa, vantaggi indebiti. Di qui, l’applicazione del principio giurisprudenziale per cui, quando vi è sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela reale solo quando il fatto accertato rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili.
Ricorre così in Cassazione la lavoratrice, deducendo l’erroneità della sentenza nell’aver omesso di interpretare la disciplina contrattuale.
Per la Suprema Corte il ricorso è meritevole di accoglimento.
Secondo giurisprudenza costante, i giudizi di gravità e proporzionalità della condotta, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, sono propri del giudice di merito. Nel caso di specie, i giudici di merito di primo e di secondo grado erano pervenuti al medesimo giudizio di non proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto al fatto contestato, divergendo invece quanto alla tutela applicata.
In via di principio, nell’ambito della valutazione di proporzionalità tra sanzione ed infrazione, nell’ipotesi di sproporzione, va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta dimostrata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa, ricadendo l’elemento della proporzionalità tra le “altre ipotesi” di cui all’art. 18, co. 5, della L. n. 300/1970, per le quali è prevista la tutela indennitaria c.d. forte (ex multis, Corte di Cassazione, sentenza n. 31529/2019). Ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento illegittimo è meritevole della tutela reintegratoria (Corte di Cassazione, sentenza n. 31839/2019).
Tanto premesso, anche nell’interpretazione dei contratti collettivi, si impone all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole. Ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole (Corte di Cassazione, sentenza n. 4670/2009).
Nell’interpretazione dei contratti, in sostanza, occorre procedere al coordinamento delle varie clausole ed interpretarle complessivamente le une a mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso risultante dall’intero negozio; pertanto, la violazione del principio di interpretazione complessiva delle clausole contrattuali si configura non soltanto nell’ipotesi della loro omessa disamina, ma anche quando il giudice utilizza esclusivamente frammenti letterali della clausola da interpretare e ne fissa definitivamente il significato sulla base della sola lettura di questi, per poi esaminare ex post le altre clausole, onde ricondurle ad armonia con il senso dato aprioristicamente alla parte letterale, oppure espungerle ove con esso risultino inconciliabili (Corte di Cassazione, sentenza n. 9755/2011).
Del resto, seppur nella particolare materia dei contratti collettivi è escluso il ricorso all’interpretazione analogica (da ultimo, Corte di Cassazione, sentenza n. 30420/2017), non può escludersi la praticabilità di un’interpretazione estensiva delle clausole contrattuali ove esse appaiano inadeguate per difetto dell’espressione letterale rispetto alla volontà delle parti, tradottasi in un contenuto carente rispetto all’intenzione.
Orbene, l’esclusione dalle clausole contrattuali di casi non espressamente previsti va attuata dall’interprete tenendo presenti le conseguenze normali volute dalle parti con l’elencazione esemplificativa dei casi menzionati onde verificare, alla stregua di un criterio di ragionevolezza imposto dalla norma, se sia possibile ricomprendere nella previsione contrattuale ipotesi non contemplate nell’esemplificazione (Corte di Cassazione, sentenza n. 9560/2017).
In conclusione, al fine di stabilire quale sia la portata applicativa delle ipotesi contemplate dal contratto collettivo per le quali è prevista l’irrogazione di una sanzione conservativa, l’esegesi della norma va condotta attraverso la corretta e completa applicazione dei tradizionali criteri di ermeneutica contrattuale nei termini giurisprudenziali esposti, operazione interpretativa che nella sentenza impugnata è mancata.